E’ successo pochi giorni fa, ma è come fossero passati anni luce. Tante, forse troppe, cose sono successe in questi giorni. Difficile tornare a pensare al movimento ultrà come lo pensavamo una settimana fa. Ma il mondo ultrà di un anno fa, quello dove entravano ancora striscioni e tamburi, sembra ora distante decenni.
Difficile oggi riordinare i nostri pensieri. Tornare a parlare di curve, di repressione, dei progetti per la Lodigiani che verrà. In questi giorni tutto sembra svuotato di senso, perché quando la morte colpisce un ragazzo che ci assomigliava così tanto, ogni cosa assume una luce nuova, assume un’altra prospettiva.
Ma, oltre lo sconforto, oltre il dolore, oltre l’angoscia, a noi che rimaniamo rimangono dei doveri, primo tra tutti quello che una morte così assurda non passi invano. Sono fermamente convinto che ogni evento della nostra vita, anche il più tragico, abbia un significato, un messaggio per noi. Un messaggio, che, anche se non riusciamo subito a comprendere, dobbiamo riuscire a decifrare. La morte di Gabriele Sandri, oltre a colpirmi per la sua dinamica, mi ha colpito per tutta una serie di pensieri che ha suscitato in me, non tutti collegati alla mia vita di stadio.
Chiaramente, però, oltre a riflettere su cosa è diventata l’Italia e sulle prospettive di una mia vita futura in questo paese che a volte ti invita soltanto a scappare a gambe levate, è impossibile non fare delle riflessioni sul nostro universo, mai così criticato e osteggiato dalla gente della morale comune come adesso, ma , nello stesso tempo, mai così unito come lo è stato in questi giorni.
Ed è da questa unità di vedute che ha coinvolto l’intero movimento che voglio far partire la mia lunga riflessione sull’avvenire dei gruppi ultrà.
Dopo tutti i fatti accorsi dal Febbraio di quest’anno in poi, mi è sembrato sempre più evidente come sia difficile continuare non solo a essere ultrà, ma anche ostentarlo pubblicamente. In questi ultimi mesi, quasi un anno, siamo stati linciati moralmente e mediaticamente, siamo stati repressi quasi fino allo stremo, siamo stati denudati della nostra identità, siamo stati snaturati e, inevitabilmente, siamo stati messi alla prova dai poteri dello Stato, che, per mezzo fax, ci hanno invitato a scendere a compromessi. Molti gruppi si sono sciolti, o sono stati costretti a farlo, o hanno dovuto fare finta, o si sono autosospesi. Altri hanno accettato il compromesso dello Stato. Ma molti non si sono piegati, e hanno difeso la propria libertà di essere ciò che si è scelto liberamente di essere.
Ma gli ultras non sono morti, e questo porta oggi lo Stato a riflettere sulle politiche future. Nonostante si parli di osservatori, norme più rigide, trasferte vietate ecc. ecc. qualcosa nel dibattito pubblico, pur timidamente, è cambiato. Qualcuno ha capito, o sta capendo, che contro gli ultras si è scelta la strada sbagliata. Siamo un paese latino, passionale, con quarant’anni di cultura ultrà e un centinaio di cultura pallonara alle spalle, e qui un movimento di decine di migliaia di ragazzi non può essere cancellato con un colpo di spugna. Qui non siamo in Inghilterra. Né noi siamo gli Inglesi. In più la morte di un ragazzo come noi ha unito tutti i ragazzi delle più disparate curve sotto un’unica insegna, che porta il nome di ultrà, ultras, movimento, mentalità, chiamatela come volete.
Ora sta a noi raccogliere il messaggio della morte di Gabriele: continuare ad essere uniti così come lo siamo stati in questi giorni, e, archiviare, almeno per il momento, le nostre rivalità e le nostre differenze di veduta, per combattere la repressione e per ridare vita al nostro movimento sotto una nuova luce, oppure scordare tutto in pochi giorni come avviene spesso in Italia e come avviene nei media che critichiamo sempre. Sta a noi tracciare la strada per il nostro futuro, se ne vogliamo uno. In questi giorni di grigio e freddo delle immagini mi continuano spesso a passare per la mente: immagini, non tanto lontane nel tempo, di curve piene fino all’inverosimile, di torciate, bandieroni sventolati 90 minuti, battimani, e cori incessanti. La speranza è quella di tornare a essere quelli che eravamo prima.
C’è però un aspetto non secondario, e sicuramente scomodo da valutare, quello dell’autocritica. Tralasciando completamente ciò che è successo a Badia Al Pino (dove gli ultras non hanno avuto colpa alcuna), se oggi il movimento si ritrova in questa situazione, vorrà dire che anche noi stessi abbiamo fatto troppi errori. A mio modo di vedere tutti noi dobbiamo pensare per quale motivo andiamo allo stadio. Io penso che la curva è la casa di tutti gli ultras, e gli ultras sono quelli che si distinguono dagli altri tifosi, da tribuna o da salotto, per il fatto che sostengono la propria squadra in maniera accesa, viva, passionale, facendo magari molti sacrifici, ma ricevendo come tornaconto soddisfazioni di non poco conto, ma soprattutto amicizie e tanto divertimento. Chi mi conosce sa benissimo qual’è stato sempre il primo obiettivo degli Ultrà Lodigiani: quello di divertirsi. E alzi la mano chi, passando tra di noi, non si è divertito.
Lo stadio, quindi, per me, resta un luogo di divertimento e di tifo. Secondo la mia modesta opinione, allo stadio non si va per combattere lo Stato. Quello semmai lo si fa in un altro contesto, magari per le strade o in sedi di partito. Nello stesso tempo lo Stato dovrebbe completamente andarsene dagli stadi: quindi fuori dallo stadio polizia, carabinieri e finanza, perché, dentro lo stadio, in questi anni, hanno creato solo tensione. O, al limite, visto che l’ordine pubblico in uno stadio con migliaia di persone, va garantito, solo poco personale, addestrato e qualificato, con un numero identificativo sulla propria divisa. Del resto la strada di svuotare gli stadi di uomini in divisa la si sta già percorrendo, anche se andrebbe molto ridefinito il ruolo degli steward che, a mio parere, in curva dovrebbero avere una posizione molto defilata.
Sono sicuro che, anche fuori dagli stadi, con meno polizia e meno tensione, la violenza tenderebbe a svanire.
Ma, nello stesso tempo, anche noi ultras dovremmo fare un’autocritica. Partendo dal presupposto che le risse negli stadi si sono verificate sempre, anche quando non esistevano gli ultras, bisogna però prendere atto che non siamo più negli anni ’50 o ’60, quando le risse non sfociavano in fatti drammatici e quando, dopo una bella scazzottata, finiva tutto lì.
Sapendo di risultare molto impopolare, ma partendo anche da ciò che alcune curve dicono da anni, credo che noi stessi dovremmo ridarci delle regole per evitare gli errori del recente passato. Credo innanzi tutto che dovremmo mostrarci rispetto tra gruppi, sempre, anche quando si è rivali, perché, aldilà delle differenze di città, di colori e di cultura, siamo tutti uniti sotto un unico stile di vita. Secondo: va bene la rissa o la scazzottata ogni tanto, soprattutto in caso di accese e sentite rivalità, ma basta aggressioni o insulti gratuiti a tifoserie con le quali non si è mai avuto niente a che fare: così si fa il solo gioco dell’Osservatorio, che ci tratta come fossimo a scuola. E, infine, per come la vedo io, basta con la politica. Per quanto mi riguarda allo stadio ci sono sempre andato per la Lodigiani, e mai per il Duce o per Stalin. Per me lo stadio è il tempio del pallone, e non un parlamento allargato. E lo scrivo con la piena consapevolezza che, soprattutto nei miei primi anni di stadio, qualcosa in tal senso l’ho sbagliata anche io. Ogni ultrà, ogni persona che tiene al nostro movimento, deve interrogarsi sul perché va allo stadio. Purtroppo credo che oggi siamo arrivati a questo punto perché si sta perdendo la passione per il tifo.
So benissimo che può non piacere a molti ciò che ho scritto, ma da ultrà mi sono sempre ritenuto una persona libera di pensare e di agire, e del resto ho analizzato il problema a tutto campo. Anzi, a dire la verità ho tralasciato molte cose (non ho parlato per esempio dei giornalisti, ma è meglio così).
Chiudo invocando, d’ora in avanti, la stessa unità che abbiamo dimostrato per la triste e assurda morte di Gabriele. Giustizia, in tutti i sensi, per la morte di Gabriele. Non dimentichiamo mai, e non lasciamo che tutto passi invano.
Stefano – Ultrà Lodigiani